Quando siamo in compagnia e ci capita di intonare tutti insieme un motivetto allegro siciliano certamente il primo che viene in mente è “Vitti ‘na crozza”.
Tutti noi, invogliati dalla melodia allegra, pensiamo di cantare un canto espressione di gioia e festosità, in realtà esso racconta una triste storia siciliana espressione di fatica, miseria, morte e ingiustizia.
Descrive infatti il mondo delle zolfare in cui si consumava la vita dei minatori, una vita passata al buio nelle profondità della terra, profondità in cui spesso i lavoratori delle miniere morivano e non vedevano più la luce, rimanendo lì sotto senza il conforto di una sepoltura.
La crozza infatti rappresenta il teschio del minatore morto che davanti il “cannone”, cioè la bocca della miniera di zolfo, racconta la sua storia di sofferenza, facendosi portavoce di una protesta che rivendica una degna sepoltura e onoranze funebri che possano accompagnarlo nell’aldilà, dopo un’esistenza di stenti, contrassegnata dal duro lavoro.
Ad approfondire l’argomento è stata Sara Favarò, giornalista e cantante, che ha condotto dieci anni di ricerche. Uno studio attento “per comprendere il vero significato della canzone più popolare e più oltraggiata della tradizione siciliana e che nulla ha da spartire con l’allegro refrain”, spiega.
Non si conosce l’autore del testo di “Vitti ‘na crozza”, ma sappiamo che la melodia è invece stata composta da Franco Li Causi, a cui il regista Pietro Germi affidò la scrittura del testo musicale per utilizzarlo come colonna sonora del film “Il cammino della speranza”.
Il regista era entrato in contatto col testo tramite un anziano minatore di Favara, tale Giuseppe Cibardo Bisaccia.
Nel tempo il testo ha subito varie rielaborazioni e, negli anni Settanta, è poi diventato un vero e proprio canto popolare portato in giro da gruppi folkloristici.
Nel 1979 fu riconosciuta a Franco Li Causi la paternità del brano.
Vitti ‘na crozza testo originale
Vitti na crozza supra nu cannuni,
fui curiuso e ci vossi spiari,
idda m’arrispunniu cu gran duluri
“murivi senza un tocco di campani”.
Si nni eru si nni eru li me anni,
si nni eru si nni eru un sacciu unni.
Ora ca sugnu vecchio di ottantanni,
chiamu la morti i idda m arrispunni.
Cunzatimi cunzatimi lu me letto,
ca di li vermi su manciatu tuttu.
Si nun lu scuntu cca lume peccatu
lu scuntu allautra vita a chiantu ruttu.
C’e’ nu giardinu ammezu di lu mari,
tuttu ntssutu di aranci e ciuri.
Tutti l’acceddi cci vannu a cantari,
puru i sireni cci fannu all’amuri.