
Nove anni senza Sara Di Pietrantonio: un messaggio di dolore e indignazione
Roma – “Nove anni senza te, angelo mio. Si continua ad uccidere e si continua a morire…” Con queste parole intrise di sofferenza, Alberto Di Pietrantonio ha commemorato la tragica morte della figlia Sara, una studentessa romana di 22 anni, vittima di femminicidio il 28 maggio 2016. Uccisa e data alle fiamme dall’ex fidanzato Vincenzo Paduano, oggi condannato all’ergastolo, il dolore di un padre diventa simbolo di una battaglia che è tutt’altro che vinta.
In un contesto di crescente preoccupazione, il papa di Sara ha voluto richiamare l’attenzione sulla drammatica realtà della violenza di genere, evidenziando un nuovo caso di femminicidio che ha scosso l’Italia. Si tratta di Martina Carbonaro, una giovane di soli 14 anni, assassinata a colpi di pietra dal suo ex fidanzato Alessio Tucci. Il corpo della ragazza è stato tragicamente ritrovato in un vecchio casolare abbandonato, occultato sotto un armadio e cumuli di rifiuti.
La situazione è ancor più allarmante se si considerano i numeri: dall’inizio del 2025, in Italia, si sono registrati 20 femminicidi per mano di ex partner, di cui sei solo nei primi due mesi dell’anno. I dati provengono dall’Osservatorio di Differenza Donna, un ente che monitora il fenomeno della violenza di genere e che spesso sottolinea l’urgenza di azioni concrete per proteggere le donne.
La commemorazione di Sara Di Pietrantonio non è solo un ricordo, ma un appello alla società. La sua morte ha dato vita a iniziative di sensibilizzazione e centri antiviolenza, come quello inaugurato a Roma in suo nome. Tuttavia, il messaggio di Alberto risuona come un monito: “Il dolore non si spegne, ma continua a crescere ogni volta che una nuova vita viene spezzata dalla violenza”.
La speranza è che il ricordo di Sara, e ora di Martina, stimoli una riflessione comune sulle responsabilità individuali e collettive, affinché simili tragedie possano finalmente fermarsi. La lotta contro il femminicidio non è solo una questione di statistiche, ma un imperativo morale.
Concludendo, la domanda rimane: che cosa si può fare per fermare questa epidemia di violenza? È una questione che richiede l’impegno di tutti, istituzioni e società civile, affinché il dolore di oggi non diventi il ricordo di domani.